Responsabilità del cessionario/cedente stabilite per legge e in via amministrativa Responsabilità in assenza di previsioni normative e amministrative
Un problema di enorme importanza, sul quale non è possibile tralasciare di soffermare l’attenzione parlando di IVA nel settore dell’edilizia, riguarda l’individuazione dei soggetti responsabili di eventuali erronee applicazioni dell’aliquota ridotta a fattispecie fuori dell’ambito di operatività delle norme che regolano il settore.
A questo proposito occorre, in primo luogo, circoscrivere la valenza delle dichiarazioni di parte alle quali è stata spesso attribuita la prodigiosa capacità di esonerare da qualsiasi responsabilità in spregio alla normativa vigente.
Infatti, a chi opera nel settore dell’edilizia e nei settori a essa collegati capita spesso di ricevere dal proprio cessionario o committente dichiarazioni scritte nelle quali lo stesso “attesta” di avere diritto a fruire di un’aliquota ridotta, senza peraltro giustificarne i motivi.
Oppure, altrettanto frequentemente, si riscontrano situazioni diametralmente opposte dove il cedente o prestatore chiedono al proprio cliente il rilascio di “attestazioni ” sulla sussistenza delle condizioni per fruire dell’aliquota ridotta nonché per fargli carico di ogni responsabilità connessa a eventuali contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria sulla liceità del beneficio.
Formule e contenuti di queste “attestazioni” sono quanto mai vari: c’è chi intende assumersi qualsiasi responsabilità per le conseguenze legate alla richiesta oppure chi si limita a richiamare la norma agevolativa allegando alla domanda i più svariati documenti (copia fotostatica della carta d’identità o della patente, oppure del permesso di costruire o di attestazioni rilasciate dai Comuni), chi, ancora, ricicla vecchie dichiarazioni che spesso richiamano norme ormai decadute e c’è chi, nell’intento di riuscire a ottenere l’aliquota IVA ridotta, compone e combina nelle forme e nei modi più impensati dichiarazioni, fotocopie, certificazioni e leggi.
Questo mito, in realtà, deve essere necessariamente ridimensionato dato che “dichiarazioni” e “attestazioni” di parte non possono né diminuire né tantomeno eliminare i rischi connessi a un’erronea interpretazione della norma.
Semmai, in alcuni casi, possono esonerare da sanzione chi, in perfetta buona fede, convinto dei dati in esse contenuti, è stato indotto a un comportamento teoricamente lecito secondo le disposizioni vigenti, ma non corretto rispetto alla fattispecie concreta.
Occorre allora avere ben chiaro che nel complesso e articolato settore dell’edilizia la “dichiarazione” di parte è puntualmente codificata soltanto nella compravendita di unità immobiliari con caratteristiche non di lusso da parte dei soggetti cosiddetti “prima casa”, mentre la “dichiarazione” necessaria per l’acquisto di beni diversi dalle materie prime e semilavorate rappresenta un espediente elaborato dall’Amministrazione finanziaria per rendere applicabile l’aliquota ridotta che, fin dall’origine, aveva creato grosse perplessità in sede di materiale applicazione.
Per il resto, pur in assenza di qualsivoglia previsione legale e amministrativa, le “dichiarazioni” solo in alcuni casi possono dimostrarsi fondamentali nel verificare la sussistenza dei requisiti che permettono l’applicazione dell’aliquota ridotta mentre in altre situazioni non possono avere alcuna validità, essendo in aperto contrasto con le norme vigenti.
La responsabilità del cessionario/cedente stabilite per legge
Da quanto finora detto le situazioni sicuramente più tranquille per il cedente sono quelle che si ricollegano all’acquisto per la “prima casa”; in tali fattispecie infatti è la legge stessa che attribuisce alla “dichiarazione” del cessionario la potestà di rendere operante la riduzione di aliquota.
Anzi, a ben vedere, questa “dichiarazione” richiamata ope legis non assolve primariamente alla funzione di trasferimento della responsabilità dal cedente al cessionario, bensì risulta condicio sine qua non per l’applicazione dell’aliquota ridotta.
Ciò significa che mancando detta “dichiarazione”, ancorché siano presenti tutte le condizioni richieste per l’operatività della riduzione di aliquota, questa non può essere applicata.
La “dichiarazione” deve essere resa in sede di acquisto ovvero di contratto preliminare (per le transazioni soggette a IVA) e dovrà necessariamente rispettare la previsione normativa che richiede l’indicazione di tre condizioni:
- l’acquirente deve trasferire entro diciotto mesi dall’atto di acquisto la propria residenza nel Comune ove è ubicato l’immobile a meno che, ovviamente, ivi non già residente (art. 1, Tariffa 1, nota II-bis, comma 1, lettera a), D.P.R. 131/1986);
- l’acquirente non deve risultare titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso o abitazione di altra casa di abitazione nel Comune in cui è situato l’immobile da acquistare (art. 1, Tariffa 1, nota II-bis, comma 1, lettera b), D.P.R. 131/1986);
- l’acquirente non deve risultare titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione, ubicata in Italia, acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge usufruendo delle attuali o precedenti agevolazioni “prima casa ” (art. 1, Tariffa 1, nota II-bis, comma 1, lettera c), D.P.R. 131/1986).
Il primo dei tre requisiti, come già detto, si presenta normativamente più articolato dato che l’agevolazione opera anche per altre fattispecie diverse dal caso in cui l’immobile sia ubicato nel Comune dove l’acquirente ha o intende stabilire la propria residenza.
La più volte citata nota II-bis stabilisce, infatti, che l’aliquota ridotta spetta anche quando l’immobile è ubicato nel Comune dove l’acquirente svolge la propria attività oppure nel Comune dove ha sede o esercita l’attività il soggetto da cui dipende l’acquirente, quando l’acquirente stesso si è trasferito all’estero per ragioni di lavoro ovvero, ovunque in Italia se l’acquirente, cittadino italiano emigrato all’estero, acquista l’immobile come prima casa.
Si ricorda, inoltre, che dal 10 dicembre 2000 per il personale in servizio permanente appartenente alle Forze armate e alle Forze di polizia a ordinamento militare, nonché quello dipendente dalle Forze di polizia a ordinamento civile non è più richiesto l’obbligo di stabilire la propria residenza nel Comune in cui è situato l’immobile.
Per le fattispecie appena richiamate la norma non richiede alcuna “attestazione” nell’atto (sia esso preliminare o rogito), di modo che l’applicazione dell’aliquota ridotta opera in modo oggettivo, per la sola presenza degli elementi richiesti riscontrabili anche a posteriori senza necessità di alcuna preventiva “dichiarazione” dell’acquirente.
Quest’ultima, se rilasciata, assumerà la funzione di agevolare il cedente nell’individuazione della presenza degli elementi richiesti per l’applicazione dell’aliquota ridotta, anche al fine di escludere la propria responsabilità.
Da quanto evidenziato consegue che l’eventuale falsità della dichiarazione non richiesta ope legis non può essere sanzionata in base alla particolare procedura stabilita dalla nota II-bis per le dichiarazioni mendaci, ma sarà oggetto di vaglio attraverso i normali canali di accertamento da parte dell’Ufficio delle Entrate (art. 1, Tariffa 1, nota II-bis, comma 4, D.P.R. 131/1986).
Su questo argomento è il caso di ricordare a quali sanzioni va incontro un contribuente in caso di dichiarazione mendace o quando vende la sua “prima casa” ed entro un anno non acquista un altro immobile da destinare ad abitazione principale.
Al riguardo si sottolinea come, con le modifiche introdotte in sede di conversione del D.L. 269/2003, il comma 5 dell’art. 41-bis (entrato in vigore il 26 novembre 2003) ha previsto importanti innovazioni relativamente alle sanzioni IVA per l’acquisto di un’abitazione con caratteristiche non di lusso fruendo senza titolo dell’agevolazione cosiddetta “prima casa” (aliquota IVA al 4% anziché 10%), del comma 4, Tariffa 1, nota II-bis, del D.P.R. 131/86.
Questo perché dall’1 aprile 1998, cioè da quando è entrato in vigore l’attuale sistema sanzionatorio (D.Lgs. 17 dicembre 1997, n. 472), l’IVA non versata era considerata una penalità e ciò permetteva all’acquirente di regolarizzare la propria posizione con l’Amministrazione versando, entro il termine per effettuare ricorso (60 giorni dalla notifica), un quarto della penalità/sanzione amministrativa, come indicato al comma 3 dell’art. 16 del D.Lgs. 472/1997.
Non solo: era discutibile anche l’applicazione degli interessi moratori, dato che l’art. 2, comma 3 del citato D.Lgs. 472/1997 stabilisce l’improduttività di interessi sulle somme irrogate a titolo di sanzione.
Diversamente, con la nuova versione del comma 4 della nota II-bis, possono recuperare “nei confronti degli acquirenti la differenza fra l’imposta calcolata in base all’aliquota applicabile in assenza di agevolazioni e quella risultante dall’applicazione dell’aliquota agevolata, nonché irrogare la sanzione amministrativa, pari al 30% della differenza medesima“.
In sostanza, a seguito della ricordata modifica, l’ufficio notifica l’atto di contestazione, richiedendo le stesse somme previste nella precedente versione, tuttavia con l’importante differenza che la sanzione non è tutto l’importo richiesto, ma è costituita dal 30% dell’IVA dovuta. In questo modo il contribuente, se vorrà definire la controversia, dovrà saldare tutte le imposte non versate e un quarto della sola penalità/ sanzione amministrativa.
Sul punto, si deve rilevare la posizione dell’Agenzia delle Entrate secondo cui, le modifiche apportate alle sanzioni amministrative dovute per dichiarazioni mendaci o per il trasferimento o per il trasferimento prima del decorso del quinquennio, degli immobili acquistati con l’agevolazione cosiddetta “prima casa”, non hanno natura innovativa.
Detto parere è contenuto nella circolare 21 giugno 2004, n. 28/E, dove si afferma che una corretta interpretazione logico sistematica nella precedente formulazione portava alle medesime conclusioni.
Peraltro, spiega l’Agenzia, “deve ritenersi che soltanto la maggiorazione del 30% della differenza aveva natura sanzionatoria, mentre l’importo determinato dalla differenza di aliquota rispondeva allo scopo di ripristinare l’effettiva entità dell’imposta dovuta dall’acquirente“.
Questa la posizione attuale dell’Agenzia che è in stridente contrasto con quanto affermato dalla stessa Amministrazione in precedenti occasioni.
Inequivoca sul punto la circolare 2 marzo 1994, n. 1/E che in tema di sanzioni “prima casa” testualmente affermava: “è di chiara evidenza che nella nozione di penalità è da ricomprendere sia la differenza di imposta come sopra calcolata sia la maggiorazione del 30% applicata sulla differenza medesima“.
Premesso tutto ciò, si sottolinea come la norma in questione che ha introdotto le modifiche alle sanzioni “prima casa”, non possa avere natura interpretativa.
Questo perché secondo il comma 2, art. 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212 – “Statuto dei diritti del contribuente” – il ricorso a norme interpretative in materia tributaria è previsto solo in “casi eccezionali” e, soprattutto, il dettato normativo deve specificamente affermare che trattasi di una disposizione avente natura di “interpretazione autentica”, situazioni queste non rinvenibili nel provvedimento in commento.
Nonostante il diverso avviso delle Entrate, appare evidente che la norma in esame ha natura innovativa e, pertanto, il 26 novembre 2003 costituisce lo spartiacque per l’applicazione delle nuove sanzioni.
Chiaro, in questo senso, l’art. 3 del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, il quale dispone che nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che secondo una legge posteriore non costituisce violazione punibile (comma 2) e che, se la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori stabiliscono sanzioni di entità diversa, si applica la legge più favorevole (cosiddetto principio del favor rei).
In termini pratici questo significa che le dichiarazioni di possedere i requisiti “prima casa” rese in sede di rogito che si dimostrano mendaci devono essere colpite con le sanzioni “vecchie” più favorevoli se la stipulazione dell’atto di vendita è avvenuto prima del 26 novembre 2003.
Diversamente, se la stipulazione dell’atto di vendita è avvenuto dopo l’entrata in vigore del provvedimento, le sanzioni che devono essere applicate sono quelle “nuove”.
Parimenti le “vecchie” sanzioni si applicano a tutte quelle vendite di abitazioni “prima casa” entro il quinquennio il cui termine per l’acquisto di una nuova unità abitativa da destinare a propria abitazione principale sia scaduto infruttuosamente prima del 26 novembre 2003.
Un’ultima annotazione in tema di abitazione principale merita di essere di essere fatta richiamando i contenuti della risoluzione 16 marzo 2004, n. 44/E dove una Direzione Regionale aveva chiesto di conoscere se si verifichi la decadenza dall’agevolazione c.d. “prima casa” nell’ipotesi in cui un contribuente abbia alienato una casa di abitazione, acquistata fruendo del regime di favore, prima del decorso del quinquennio, qualora abbia acquistato entro un anno dall’alienazione un terreno su cui costruire la propria abitazione principale.
L’Agenzia ha ritenuto che “per non incorrere nella decadenza dal beneficio c. d. “prima casa”, non è di per sé sufficiente l’acquisto entro un anno del terreno, richiedendosi a tal fine che entro l’anno dall’alienazione venga ad esistenza il fabbricato destinato ad abitazione principale. Non è necessario che il fabbricato sia ultimato: è sufficiente che lo stesso entro l’anno venga ad esistenza, cioè acquisti rilevanza dal punto di vista urbanistico; deve quindi esistere almeno un rustico comprensivo delle mura perimetrali delle singole unità e deve essere stata completata la copertura (art. 2645-bis, comma 6, c.c.)“.
La responsabilità del cessionario/cedente stabilite in via amministrativa
Si è già accennato che per le cessioni di beni diversi dalle materie prime e semilavorate l’Amministrazione finanziaria subordina l’applicazione dell’aliquota ridotta alla presenza di una “dichiarazione” di responsabilità resa al soggetto cedente da parte dell’acquirente circa l’effettiva destinazione d’uso dei beni stessi in costruzioni “agevolate”.
La responsabilità assunta dall’acquirente, pertanto, vale solo con riferimento all’utilizzazione del bene in immobili agevolati e non ai fini di altri requisiti richiesti per l’applicazione dell’aliquota ridotta.
La soluzione adottata dal Ministero delle Finanze ha, in ogni caso, determinato altri tipi di problemi.
Il più significativo, senza dubbio, è legato all’applicazione di eventuali sanzioni quando, in presenza di tutti i requisiti oggettivi, il cedente ha applicato l’agevolazione ma non ha richiesto la “dichiarazione”.
Tale comportamento omissivo del precetto posto dall’Amministrazione non trova, infatti, alcun riferimento normativo per cui è lecito chiedersi se il cedente possa essere soggetto a sanzione.
La risposta potrebbe essere negativa, trattandosi di un onere richiesto al fine di evitare l’impraticabilità della riduzione di aliquota per l’assoluta incertezza in cui opera il cedente in tali situazioni.
Mancando (e non poteva essere altrimenti, trattandosi di soluzione amministrativa) l’esplicita previsione “a pena di decadenza” (così come previsto per la “prima casa”), la presenza delle condizioni richieste, malgrado l’assenza della dichiarazione dell’acquirente, dovrebbe confortare la legittimità dell’applicazione dell’aliquota ridotta.
È fuori dubbio, per altro, che una risposta certa e definitiva a tale quesito è stata data soltanto con i DD.LLgs. 18 dicembre 1997 n. 471, n. 472 e n. 473, che hanno riformato il sistema sanzionatorio amministrativo e hanno introdotto il principio di legalità di cui si è fatto cenno in un precedente capitolo, il quale si sostanzia nel fatto che “nessuno può essere assoggettato a sanzioni se non in forza di una legge entrata in vigore prima della commissione della violazione“.
Dall’1 aprile 1998, data di entrata in vigore dei tre decreti, la mancanza della “dichiarazione” non determina, dunque, alcuna conseguenza, purché il cedente sia in grado di dimostrare a posteriori che il bene ceduto è stato impiegato per una costruzione o per un intervento assoggetto ad aliquota ridotta.
Ciò significa che la dichiarazione ha assunto un ruolo del tutto nuovo, ma in ogni caso la sua mancanza non produrrà automaticamente l’applicazione di sanzioni.
La responsabilità in assenza di previsioni normative e amministrative
Al di fuori delle due ipotesi appena commentate devono essere collocate tutte le fattispecie del settore edilizio che godono di un’aliquota ridotta, ma per le quali non è richiesta alcuna “dichiarazione”.
Quest’ultima tuttavia ha trovato applicazione sia, come si è visto, per un’erronea valutazione dell’ambito in cui la “dichiarazione” può essere utilizzata, sia perché in alcuni casi essa è considerata l’unica possibilità per l’operatore di conoscere l’esatto ambito del proprio intervento.
La dichiarazione, in ogni caso, non esime i cedenti/appaltatori dall’effettuare i necessari riscontri tra quanto affermato dai propri clienti e le operazioni poste in essere.
La cosa, evidentemente, non sempre è agevole o materialmente possibile: si pensi, a titolo di esempio all’impresa che effettua delle prestazioni di servizi in base a dei contratti d’appalto a favore di un soggetto che dichiara di possedere i requisiti “prima casa”, oppure all’impresa che effettua dei lavori di scavo per la realizzazione, secondo il proprietario del terreno, di un fabbricato rurale e, ancora, al caso dell’imbianchino chiamato a dipingere delle pareti a completamento, in base alle affermazioni del committente, di un intervento di recupero.
Nelle ipotesi appena prospettate e mutuate tra le tante che la realtà del settore quotidianamente propone, appare chiaro che, con la normale diligenza, gli operatori non sono assolutamente in grado di appurare la veridicità delle affermazioni fatte dai propri committenti.
Non è pensabile, infatti, che un’impresa di costruzioni, prima di applicare l’aliquota ridotta a un privato che afferma di avere i requisiti “prima casa”, compia delle indagini nelle conservatorie di tutta Italia, per verificare tale affermazione, oppure che l’impresa o l’imbianchino cui sono stati commissionati, rispettivamente, i lavori di scavo o quelli di tinteggiatura, visitino quotidianamente il cantiere per verificare che l’immobile realizzato mantenga le caratteristiche per godere dell’aliquota ridotta.
Se così fosse, tali operatori dovrebbero svolgere delle vere e proprie attività investigative che, evidentemente, sono e devono restare esclusivo appannaggio dell’Amministrazione finanziaria.
Ma allora – questo è il punto – di fronte alle “dichiarazioni” rilasciate dal proprio cliente qual è il comportamento che deve adottare il cedente/appaltatore perché non sia successivamente oggetto di censura da parte dell’Amministrazione finanziaria?
Alla luce dei vigenti principi sanzionatori si può affermare che l’operatore chiamato a effettuare la cessione di beni o la prestazione di servizi ad aliquota ridotta è sempre responsabile per l’aliquota applicata (cfr. art. 5, D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472), a meno che non sia in grado di dimostrare, in caso di contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, che la scelta operata è stata determinata da obiettive condizioni di incertezza normativa (si badi, incertezza normativa e non scarsa conoscenza della stessa) oppure perché il proprio cliente ha occultato, falsificato o, in ogni caso, compiuto atti che lo hanno indotto all’errore.
Nel contesto appena delineato, dunque, acquista fondamentale rilevanza per l’esclusione della responsabilità, la dimostrazione della buona fede dell’autore dell’illecito amministrativo tributario.
La buona fede, per gli illeciti di cui si discute, può far venire meno la responsabilità, quando il fatto obiettivo della violazione sia stato determinato da una situazione non ricollegabile alla volontà del soggetto, il quale dimostri di aver svolto tutto l’interessamento possibile per uniformare la propria condotta alle disposizioni di legge, senza riuscirvi per motivi a lui non imputabili.
In generale, per l’esclusione della responsabilità si richiedono, come già detto, due requisiti: che la mancata conoscenza dell’illiceità del fatto discenda non dalla mera ignoranza della legge, ma da una circostanza esterna, idonea a indurre in errore il soggetto convincendolo della liceità del suo comportamento, e che tale errore sia incolpevole.
Per esempio, nel settore dell’edilizia potrebbe verificarsi una simile fattispecie quando il committente esibisce al commissionario dei documenti (permesso di costruire, denuncia di inizio attività) all’apparenza del tutto regolari e, in quanto tali, idonei a convincere il commissionario stesso della verità dei dati in essi contenuti.
Qualora, in un momento successivo, l’Amministrazione finanziaria accerti la difformità totale o parziale della suddetta documentazione rispetto alla situazione reale, artatamente predisposta al fine di usufruire dell’aliquota ridotta, il commissionario potrà invocare a sua discolpa la buona fede, essendo stato indotto in errore dal comportamento illecito del committente e avendo agito nella convinzione della liceità della propria condotta.
In altri casi l’errore sulla liceità del proprio comportamento può derivare anche da un provvedimento dell’autorità che induca al convincimento che una certa condotta sia consentita e legittima.
Si pensi, sempre per ciò che riguarda strettamente il settore edile, al caso di una concessione amministrativa illegittima oppure di un’attestazione rilasciata dal Comune competente, nelle quali si affermi, in violazione delle disposizioni in materia urbanistica ed edilizia, che un determinato intervento edilizio consiste in un’opera di ristrutturazione quando, in realtà, si tratta di lavori di demolizione e costruzione (l’esempio è stato ripreso da un episodio realmente accaduto che è stato oggetto di ben tre risoluzioni ministeriali: 1 marzo 1993, n. 531543; 6 ottobre 1992, n. 531543; 7 marzo 1992, n. 501040).
In base a queste riflessioni (confermate anche dalla circolare 13 luglio 1998, n. 180/E “il fattore discriminante è quindi costituito dalla causa dell’errore medesimo. Se esso dipende da imprudenza, diligenza o imperizia, non rileva ai fini dell’esclusione della responsabilità, ma se il trasgressore ha osservato la normale diligenza nella ricostruzione della realtà, l’errore in cui è incorso esclude la colpa richiesta alla precedente art. 5. Per contro – si ribadisce – l’errore evitabile con l’uso dell’ordinaria diligenza, quella cioè che si può ragionevolmente pretendere dal soggetto agente, non influisce sulla punibilità”) è evidente, che per formarsi un autonomo convincimento e per dimostrare a posteriori la propria buona fede e diligenza, l’operatore non solo deve esigere una “dichiarazione” dal proprio cliente, nella quale quest’ultimo attesti la sussistenza di determinati requisiti non altrimenti conoscibili, ma deve pretendere anche una copia di tutti quei documenti quali concessioni edilizie, asseverazioni di professionisti, denunce di inizio attività e di quant’altro sia utile ad avallare le richieste e le affermazioni che gli vengono rese.
Data l’estrema complessità del settore edilizio che, come si è avuto modo di vedere nei precedenti capitoli, si presenta estremamente frammentato con soluzioni differenziate a seconda dei soggetti, degli immobili e del tipo di operazione poste in essere, “dichiarazione” e documentazione da chiedere e conservare variano per forme e contenuti per cui si ritiene opportuno, a questo punto, predisporre l’analisi di ogni singola fattispecie assoggettata ad aliquota IVA ridotta che permetta all’operatore di comprendere meglio quali comportamenti e misure adottare per assecondare, laddove sia possibile, le richieste dei propri clienti.
L’acquisto di unità immobiliari con caratteristiche non di lusso da parte di soggetto “prima casa”
Si è già detto in premessa che l’unica “dichiarazione” stabilita dal legislatore per l’applicazione dell’aliquota ridotta è quella per l’acquisto di una casa di abitazione con caratteristiche non di lusso di cui al D.M. 2 agosto 1969 e relative pertinenze resa da un privato in possesso dei requisiti stabiliti dalla Tabella A, parte II, voce 21, allegata al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 che richiama le condizioni di cui alla nota II-bis, art. 1 della Tariffa, parte I, allegata al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131.
In aggiunta a quanto già precisato in premessa, in questa sede si intende approfondire alcuni aspetti legati al trasferimento della residenza nel Comune ove è ubicata la casa di abitazione oggetto di compravendita.
Si ricorda che il cambio di residenza assume efficacia dal giorno in cui l’interessato presenta la domanda e non dal momento in cui essa viene accolta.
Occorre, pertanto, che l’acquirente conservi, per evitare possibili contestazioni, la ricevuta della domanda a suo tempo presentata all’Ufficio anagrafe del Comune.
A questo proposito, va rilevato che competente per qualsiasi contestazione, avente a oggetto i provvedimenti assunti dagli uffici comunali in materia, è il Tribunale Amministrativo Regionale.
Per godere dell’aliquota ridotta, – come già ricordato – chi acquista deve inoltre “dichiarare” nell’atto notarile o nel contratto preliminare la sussistenza di due condizioni: di non possedere (cioè “di non essere titolare esclusivo o in comunione con il coniuge dei diritti di proprietà, usufrutto, uso e abitazione“) nel medesimo Comune in cui compra, di altra casa di abitazione; di non possedere (cioè “di non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso abitazione e nuda proprietà“) altra casa di abitazione per la quale egli stesso, o il coniuge, abbiano usufruito di particolari agevolazioni fiscali (richiamate dettagliatamente nella nota II-bis).
Relativamente a quest’ultima condizione si deve rilevare un’importante innovazione contenuta nei commi 3 e 4 dell’art. 69 del collegato fiscale alla legge finanziaria 2000 – legge 21 novembre 2000, n. 342 – con la quale il legislatore ha riconosciuto ai beneficiari di attribuzioni gratuite (successione e donazione) di unità abitative che abbiano i requisiti “prima casa” previsti dalla richiamata nota II-bis, l’applicazione delle imposte ipotecarie e catastali (diversamente da scontarsi con l’aliquota proporzionale del 3% complessivo) ognuna nella misura fissa di 129,11 euro.
Nel caso il contribuente sfruttasse quest’ultima agevolazione, evidentemente, perderebbe il diritto di riutilizzarla per un successivo acquisto.
In base a quanto finora detto il cessionario deve integrare il contratto preliminare con una “dichiarazione” i cui contenuti sono riportati in appendice.
Si è già detto che nel caso in cui l’acquirente renda una “dichiarazione” mendace e/o nell’ipotesi in cui non fissi la residenza nello stesso Comune ove è ubicato l’immobile nel termine di un anno e mezzo dal rogito notarile, l’Ufficio delle Entrate territorialmente competente provvede al recupero, nei confronti dell’acquirente, dell’imposta e delle sanzioni.
Non sempre, tuttavia, una “dichiarazione” mendace è sanzionabile.
Come ha precisato il Ministero con la circolare 2 marzo 1994, n. 1/E qualora la mendacità della “dichiarazione” resa in sede di contratto preliminare sia determinata da eventi successivi, non dipendenti dalla volontà dell’acquirente, gli uffici non devono procedere nell’applicazione delle sanzioni.
In questo caso è importante per l’acquirente dimostrare che gli accadimenti successivi alla “dichiarazione” siano del tutto involontari.
Agevole in questo senso provare l’acquisizione di un immobile, dopo la stesura del preliminare e il versamento di uno o più acconti, per successione mortis causa (esempio utilizzato nella richiamata circolare n. 1/E/1994) oppure in caso di donazione, altra ipotesi che si ritiene pacificamente equiparabile alla successione mortis causa, dato che anche questa seconda fattispecie non nasce da una discrezionalità pura dell’interessato; quest’ultimo, infatti, risulta “beneficiario” a titolo gratuito di volontà altrui (donante).
In simili fattispecie dunque il cedente, al momento del rogito, deve provvedere a eseguire la relativa variazione prevista dall’art. 26, comma 1 del D.P.R. 633/1972.
Diverso è invece il caso che non è mai stato oggetto di chiarimenti ministeriali, in cui l’acquirente con proprie scelte o comportamenti rende mendace la dichiarazione.
Al riguardo si ritiene che il comportamento corretto da parte dell’acquirente sia quello di non aspettare il momento del rogito (se questo avrà ancora luogo), ma di comunicare senza indugio al cedente la nuova situazione che si è venuta a creare, avendo cura di reperire e conservare tutta la documentazione che possa giustificare le scelte operate.
Il cedente, pertanto, potrà provvedere a effettuare le opportune rettifiche in aumento oppure in diminuzione.
Ovviamente, è appena il caso di segnalare che il cedente, nel caso non dia seguito tempestivamente (cioè nello stesso giorno) alla richiesta fatta dal cessionario per le variazioni in aumento, sarà responsabile e, dunque, sanzionabile, per l’imposta non versata.
Sempre in tema di responsabilità del cedente, deve essere posta l’attenzione su quale comportamento quest’ultimo debba adottare per emettere delle fatture con aliquota ridotta al 4% senza essere oggetto di eventuali contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Al riguardo egli deve evidentemente vendere un’unità immobiliare (e/o sue pertinenze) con le caratteristiche non di lusso di cui al D.M. 2 agosto 1969 e, in secondo luogo, deve entrare in possesso (copia del preliminare o del rogito) della “dichiarazione”.
Eventuali pagamenti anticipati, pertanto, possono essere fatturati con aliquota ridotta alla imprescindibile condizione che sia stato predisposto anche il contratto preliminare.
Da tenere presente che la “dichiarazione”, anche se resa in sede di rogito, non sana eventuali fatturazioni con aliquota ridotta fatte in assenza del contratto preliminare.
La procedura corretta, in quest’ultima ipotesi, impone al cedente di fatturare gli acconti con aliquota del 10% e di rettificare le fatture successivamente, all’atto del rogito (ovviamente se in quella sede viene resa la dichiarazione), ai sensi dell’art.26 del D.P.R. 633/1972, in modo da applicare l’aliquota ridotta del 4% sull’intero corrispettivo della cessione.
Su questo specifico aspetto il Ministero delle Finanze è intervenuto con la circolare 2 marzo 1994, n. 1/E dove è stata riconosciuta la possibilità, da parte del cedente, di operare la variazione in diminuzione.
In quella occasione, tuttavia, l’Amministrazione non aveva chiarito come la rettifica potesse essere operata oltre il termine dei 365 giorni dall’effettuazione dell’operazione, ritenendosi operante il comma 3 del citato art. 26.
A questo riguardo parte della dottrina aveva giustamente sottolineato come la rettifica in questione non potesse essere ricondotta alle fattispecie per le quali ricorre il limite temporale di un anno.
Il comma 2 dell’art. 26, infatti, è circoscritto alle ipotesi in cui vi è una “dichiarazione di nullità, annullamento, revoca, risoluzione, rescissione e simili o per mancato pagamento in tutto o in parte a causa di procedure concorsuali o di procedure esecutive rimaste infruttuose o in conseguenza dell’applicazione di abbuoni o sconti previsti contrattualmente”, ipotesi queste ben diverse dalla fattispecie in questione.
Né si poteva parlare di accordo sopravvenuto tra le parti o di inesattezza delle fatture originariamente emesse, giacché in mancanza della dichiarazione dell’acquirente nel preliminare, il cedente doveva applicare, in relazione agli acconti percepiti, l’aliquota del 10%.
A tali insicurezze operative è stata data una risposta dal Ministero delle Finanze soltanto con la risoluzione ministeriale 7 dicembre 2000, n. 187/E, nella quale si afferma che: “nelle ipotesi di variazione sopra descritte il limite temporale, previsto dall’art. 26, contempera l’esigenza di dare rilievo fiscale alle vicende contrattuali determinate dalla volontà delle parti, o ad errori commessi in sede di fatturazione, con quella di dare certezza alla pretesa tributaria.
La rettifica dell’imposta cui si riferisce il quesito in esame esula dalla citata previsione normativa in quanto non si ricollega a variazioni negli elementi contrattuali né ad errori di fatturazione atteso che, al momento della stipula del contratto preliminare, l’imposta è stata correttamente applicata nella misura del 10%. Inoltre, detta rettifica risponde ad una ratio del tutto diversa da quella che presiede la previsione del citato art. 26, in quanto, come chiarito nella richiamata circolare n. 1/E, risulta finalizzata alla necessità di garantire l’applicazione del beneficio “prima casa” sull’intero importo dell’operazione, anche nella ipotesi in cui il relativo pagamento avvenga in più soluzioni.
La rettifica della maggior imposta applicata in sede di contratto preliminare per carenza a tale data dei requisiti necessari per usufruire dell’aliquota del 4% risulta coerente con la disposizione recata dalla nota II-bis) all’art. 1 della tariffa, parte prima allegata al testo unico dell’imposta di registro, approvato con D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, alla quale fa riferimento il richiamato n. 21) della Tabella A, parte seconda, allegata al D.P.R. n. 633 del 1972, atteso che tale disposizione subordina l’applicazione dell’aliquota del 4% alla sola circostanza che la dichiarazione relativa alla sussistenza dei requisiti necessari per usufruire dell’agevolazione sia resa nell’atto di acquisto e non richiede che tali requisiti sussistano anche al momento del pagamento degli acconti.
Ciò risulta confermato dal comma 2 della stessa tariffa il quale, nel prevedere che le dichiarazioni relative al possesso dei suddetti requisiti possano essere rese oltre che nell’atto di acquisto, anche in sede di contratto preliminare, (consentendo pertanto l’applicazione dell’aliquota IVA del 4% già in tale sede), richiede comunque che esse debbano essere riferite al momento in cui si realizza l’effetto traslativo del contratto.
In considerazione della particolare ratio, strettamente connessa all’applicazione del beneficio prima casa, che presiede alla possibilità di operare le variazione in diminuzione nell’ipotesi in esame, deve ritenersi che detta variazione possa essere effettuata a prescindere dal tempo trascorso tra il pagamento dell’acconto e la stipula dell’atto definitivo di acquisto“.
L’appalto/subappalto per la costruzione di unità immobiliari con caratteristiche non di lusso da parte di soggetto “prima casa” oppure commissionate da imprese del settore edilizio o da cooperative edilizie e loro consorzi, anche se a proprietà indivisa
Una seconda ipotesi che indirettamente utilizza la normativa dalla nota II-bis appena analizzata, riguarda la costruzione di un’unità immobiliare con caratteristiche non di lusso da parte di un privato in possesso dei requisiti “prima casa”.
In questo caso il privato, nel commissionare la realizzazione o la parziale realizzazione dell’immobile, è bene che predisponga una “dichiarazione” da consegnare all’impresa appaltatrice in cui si attestino le caratteristiche che l’immobile avrà nel momento in cui verrà completato e il possesso da parte del committente dei requisiti “prima casa”.
Riguardo alle caratteristiche dell’immobile è, ovvio che nel caso dei cosiddetti “appalti chiavi in mano” le imprese appaltatrici sono perfettamente in grado di verificare se l’immobile avrà, una volta ultimato, le caratteristiche non di lusso di cui al D.M. 2 agosto 1969.
Invece, nel caso delle costruzioni cosiddette in economia, soprattutto per le imprese che effettuano i primi lavori (operazioni di scavo, sbancamento, predisposizione delle strutture portanti ecc.), è più difficoltoso effettuare questo tipo di verifica.
Per tale motivo è bene che le imprese richiedano copia del permesso di costruire dal quale è possibile evincere il tipo d’immobile che il committente ha dichiarato di volere costruire.
L’altro aspetto cui le imprese appaltatrici, prima di fatturare con aliquota ridotta al 4%, devono prestare la massima attenzione, riguarda la congruenza dei requisiti soggettivi attestati dal dichiarante in base ai lavori effettuati.
Non è pensabile, infatti, che un’impresa fatturi la propria prestazione con aliquota ridotta al 4% a un privato titolare di un permesso a costruire per la realizzazione di una palazzina composta di quattro appartamenti con caratteristiche non di lusso semplicemente perché quest’ultimo “dichiara” di possedere i requisiti “prima casa”.
In simili ipotesi, evidentemente, l’impresa è perfettamente in grado di rendersi conto della mendacità, quantomeno parziale, della dichiarazione e, pertanto, dare seguito alle richieste del committente per applicazione dell’aliquota ridotta è un comportamento sicuramente sanzionabile.
Del tutto simili sono le problematiche nel caso i committenti degli appalti per la realizzazione di fabbricati composti da unità immobiliari a destinazione abitativa con caratteristiche non di lusso e/o comprendenti uffici e negozi in determinate proporzioni siano imprese di costruzione (cioè imprese operanti abitualmente nel settore edile) e cooperative edilizie.
In queste ipotesi, per rendersi conto se i committenti hanno le caratteristiche soggettive stabilite dalla norma, è opportuno che il commissionario richieda una fotocopia dello statuto dove viene indicato l’oggetto sociale o, nel caso di impresa individuale, di una visura camerale.
Una fotocopia del permesso di costruire permetterà, inoltre, di verificare l’esistenza del titolo abilitativo ai lavori e la sussistenza dei presupposti oggettivi.
Anche in questo caso una discrasia tra i dati in possesso del commissionario e quanto dichiarato dal committente impongono al primo, se non a proprio rischio, di non fatturare con aliquota ridotta al 4%, a nulla valendo eventuali “dichiarazioni” di esenzione da responsabilità rilasciate dal secondo.
L’appalto/subappalto per la costruzione di abitazione “non prima casa” con caratteristiche non di lusso ovvero di “fabbricato o porzione di esso con caratteristiche non di lusso”
La terza e ultima fattispecie, in cui è prevista l’applicazione dell’aliquota ridotta per la costruzione di unità immobiliari con caratteristiche non di lusso e di fabbricati “Tupini”, riguarda tutte le imprese che non svolgono “l’attività di costruzione di immobili per la successiva vendita” e i privati.
Per queste due categorie di soggetti l’Amministrazione finanziaria (circolare 2 marzo 1994, n. 1/E) ha riconosciuto la possibilità di applicare l’aliquota del 10% anziché quella ordinaria del 20% nonostante che, come già detto, la norma non sia esplicita sul punto: “si deve ritenere che detta fattispecie, poiché in sostanza consiste nella realizzazione di fabbricati di edilizia abitativa, ancorché comprendenti, e nelle percentuali sopra chiarite, uffici o negozi, sia riconducibile nella previsione del citato n. 127-quaterdecies) e quindi assoggettabile anche essa all’aliquota IVA del 9 (ora 10)%“.
In base a questo orientamento, pertanto, le imprese a cui vengono commissionati gli appalti potranno fatturare con aliquota ridotta, ovviamente verificando preventivamente la sussistenza dei requisiti oggettivi, la realizzazione di un’unità immobiliare con caratteristiche non di lusso o di un fabbricato “Tupini”.
In questo caso sarà sufficiente ottenere una copia del permesso di costruire che deve coincidere con quanto dichiarato dal committente e soprattutto, deve esserci una rispondenza dei lavori commissionati con quelli in essa indicati.
L’appalto/subappalto per la costruzione di “fabbricati rurali” a uso abitativo
Come è noto, a partire dal 24 febbraio 1995 l’edilizia rurale è oggetto di agevolazione ai fini IVA soltanto per le costruzioni agricole destinate a uso abitativo del proprietario del terreno o di altri addetti alle coltivazioni dello stesso o all’allevamento del bestiame e alle attività connesse e sempre che ricorrano le condizioni di cui all’art. 9, comma 3, lettere c) ed e) del D.L. 30 dicembre 1993, n. 557, convertito dalla legge 24 febbraio 1994, n. 133.
Più in particolare, le condizioni oggettive (si veda il capitolo 4) affinché si renda applicabile l’aliquota agevolata sono le seguenti:
- il terreno cui il fabbricato è asservito deve avere superficie non inferiore a 10.000 mq ed essere censito al catasto terreni con attribuzione di reddito agrario. Qualora sul terreno siano praticate colture specializzate in serra, ovvero la funghicoltura, il limite viene ridotto a 3.000 mq;
- i fabbricati a uso abitativo, che hanno le caratteristiche delle unità immobiliari urbane appartenenti alle categorie A/1 e A/8, ovvero le caratteristiche di lusso previste dal D.M. 2 agosto 1969, non possono comunque essere riconosciuti rurali.
Relativamente al terreno cui la costruzione è asservita si ribadisce che, comunque, deve trattarsi di terreno agricolo, atto alla produzione agricola e quindi produttivo di reddito agrario.
Non ha invece alcuna rilevanza la figura del committente della costruzione che normalmente è il proprietario del terreno.
Tuttavia, anche un soggetto che non si occupa della coltivazione del terreno può richiedere l’applicazione dell’IVA del 4% per la costruzione dell’abitazione rurale, purché l’immobile venga successivamente utilizzato dall’affittuario del terreno o dai dipendenti dell’azienda agricola.
Le imprese appaltatrici, quindi, per rendersi conto del sussistere delle condizioni oggettive, possono richiedere una visura del catasto terreni dove viene realizzata la costruzione e una copia del permesso di costruire rilasciata dagli uffici comunali.
Nella “dichiarazione”, inoltre è bene che il committente manifesti la volontà di destinare l’immobile ad abitazione delle persone addette alla coltivazione del fondo.
L’appalto/subappalto per la costruzione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e quelle a esse equiparate e la realizzazione di edifici destinati a ospitare delle collettività
La voce 127-septies della Tabella A, parte III, allegata al D.P.R. 633/1972, dispone che agli appalti relativi alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria e secondaria e quelle a esse equiparate nonché agli appalti concernenti la realizzazione di edifici di cui alla voce 127-quinquies si applica un’aliquota del 10% indipendentemente dai soggetti committenti.
L’applicazione dell’aliquota ridotta relativamente a questo tipo di appalti è dunque subordinata unicamente alla sussistenza del requisito oggettivo.
Anche in questo caso, per una corretta individuazione della costruzione, può essere utilizzato il permesso di costruire posto che esso è obbligatorio per tutti gli interventi edificatori che inducano una modificazione durevole dell’assetto del territorio e che, indipendentemente dai materiali e dalla tecnica costruttiva di realizzazione o dalla sua incorporazione al suolo, la costruzione abbia carattere di permanenza e di continuità d’uso.
Il permesso di costruire, quindi, è richiesto anche per quelle opere con caratteristiche non riconducibili a quelle di un edificio, come per esempio un impianto sportivo, una strada o un parcheggio.
Pertanto, se vi è rispondenza tra detto titolo abilitativo a effettuare i lavori che richiama una delle ipotesi della voce 127-quinquies e il tipo di prestazione effettuata, il committente può applicare l’aliquota ridotta.
È già stato detto che nelle ipotesi in cui viene commissionato un appalto per l’intera realizzazione dell’opera (si tratta dei cosiddetti appalti “chiavi in mano”) le imprese appaltatrici sono perfettamente in grado di verificare se la costruzione o il manufatto avrà, una volta ultimato, i requisiti richiesti per fruire dell’aliquota al 10% e, pertanto, a eventuali contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria, non è opponibile alcuna “dichiarazione” rilasciata dal committente.
Diversa è invece la posizione delle imprese che hanno ricevuto in appalto o in subappalto una parte dei lavori e che non hanno la materiale possibilità di verificare, al momento della fatturazione, la sussistenza dei requisiti per applicare l’aliquota ridotta del 10%.
In questo caso una “dichiarazione” dei committenti e una copia del permesso di costruire permettono alle imprese appaltatrici di effettuare gli opportuni riscontri tra i lavori effettuati e le richieste dei committenti.
L’appalto/subappalto per interventi finalizzati al superamento e alla eliminazione delle barriere architettoniche
Nella previsione di cui alla voce 41-ter della Tabella A, parte II, allegata al D.P.R. 633/972 rientrano tutte quelle prestazioni di servizi dipendenti da contratti d’appalto (o d’opera nel caso in cui il committente non si sia rivolto a un’impresa ma a un lavoratore autonomo quale, per esempio, un artigiano) aventi per oggetto la realizzazione delle opere finalizzate al superamento e alla eliminazione delle barriere architettoniche anche nell’ipotesi in cui tali operazioni concretizzino solamente un intervento di manutenzione ordinaria (per esempio, la realizzazione di una piattaforma mobile con interventi sul vano scala) in cui non è richiesto alcun titolo abilitativo.
Nella maggioranza dei casi, peraltro, i lavori posti in essere per adeguare l’edificio alle direttive di cui alla legge 9 gennaio 1989, n. 13 – “Disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati ” – sono subordinati alla denuncia di inizio attività o al permesso di costruire.
Tuttavia, come già detto nei precedenti capitoli, ciò dipende dal rilievo dell’intervento.
Per esempio, se quest’ultimo determina la realizzazione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento all’esterno della sagoma esistente è considerato di nuova costruzione (cfr. lettera e.1) art. 3 del D.P.R. 380/2001), per cui è necessario il permesso di costruire; diversamente la realizzazione di un impianto tecnologico, quale può essere l’installazione di un ascensore, che non alteri i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari, richiede solo la presentazione della denuncia di inizio attività.
Il titolo abilitativo, in queste fattispecie si dimostra dunque di sicuro ausilio per l’impresa appaltatrice (soprattutto in caso di appalti frazionati o di subappalti per la realizzazione dell’intervento) nel verificare se l’opera rientra tra quelle per il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche, per cui è opportuno richiederne una copia al committente unitamente a una dichiarazione.
Si rammenta, inoltre, che il Ministero dei lavori pubblici ha disciplinato la materia con decreto 14 giugno 1989, n. 236, pubblicato sul supplemento ordinario n. 47 alla Gazzetta Ufficiale n. 145 del 23 giugno 1989: “Prescrizioni tecniche necessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visibilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche“, corredando il provvedimento della circolare esplicativa 22 giugno 1989, n. 1669/U.L.
L’appalto/subappalto per gli interventi di manutenzione straordinaria di cui alla lettera b) dell’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457 effettuati su edifici di edilizia residenziale pubblica
In precedenza si è già detto che la legge collegata alla finanziaria del 1998, intervenendo sulla Tabella A, parte III, allegata al D.P.R. 633/1972, ha introdotto a regime l’aliquota ridotta al 10% per le prestazioni di servizi aventi a oggetto gli interventi di manutenzione straordinaria su edifici di edilizia residenziale pubblica.
Giova ribadire che, a differenza di tutte le altre formulazioni utilizzate dal legislatore per circoscrivere l’applicazione dell’aliquota ridotta alle sole prestazioni di servizi effettuate in base a contratti d’appalto (subappalto o d’opera), in questa specifica fattispecie il legislatore omette il riferimento ai contratti d’appalto, per cui si era giunti alla conclusione che l’aliquota del 10% ha un ambito applicativo più ampio.
Si deve tenere a mente, inoltre, che l’art. 26 della legge 9 gennaio 1991, n. 10 assimila, a tutti gli effetti, gli interventi di utilizzo delle fonti rinnovabili d’energia, di cui all’art. 1 della medesima legge, svolti su edifici e impianti industriali, alla manutenzione straordinaria.
Pertanto, anche questi interventi beneficiano della riduzione di aliquota al 10%, sempre che, ovviamente, siano effettuati su edifici di edilizia residenziale pubblica.
Circa la corretta individuazione degli immobili oggetto della nuova disposizione si ricorda che il Ministero delle Finanze, con la risoluzione 22 luglio 1998, n. 86/ E ha chiarito che gli “edifici di edilizia residenziale pubblica” devono rivestire entrambe le seguenti caratteristiche: essere un edificio pubblico; essere un edificio residenziale.
Riguardo il titolo abilitativo si sottolinea che per questo tipo d’interventi è necessario possedere la denuncia di inizio attività a esclusione degli interventi di utilizzo delle fonti rinnovabili d’energia, di cui all’art. 1 della legge 9 gennaio 1991, n. 10, che sono del tutto “liberi” vale a dire esclusi da qualsiasi controllo preliminare da parte dell’Amministrazione comunale.
In quest’ultima ipotesi, anziché richiedere una copia del titolo abilitativo, è opportuno che il committente rilasci una “dichiarazione” dove viene fatta menzione che l’intervento riguarda le fonti rinnovabili d’energia.
È bene avere presente, inoltre, che il committente i lavori può non coincidere con il titolare della licenza edilizia o di altro titolo abilitativo all’intervento poiché, come chiarito dal Ministero delle Finanze con la risoluzione 2 novembre 1988, n. 461666 è del tutto ininfluente ai fini dell’applicazione dell’IVA ad aliquota ridotta, la circostanza che gli immobili oggetto dell’intervento siano condotti in locazione e che sia il conduttore anziché il proprietario ad appaltarne i lavori e sopportarne l’onere.
L’appalto/subappalto per gli interventi di restauro e di risanamento conservativo, per gli interventi di ristrutturazione edilizia e per gli interventi di ristrutturazione urbanistica di cui rispettivamente alle lettere c), d), ed e) dell’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457
Come già rilevato in precedenza in tema di agevolazione valida per alcuni interventi effettuati su edifici a prevalente destinazione abitativa privata, l’aliquota ridotta al 10% nell’ambito degli interventi di recupero è limitato agli interventi di restauro e risanamento conservativo e agli interventi di ristrutturazione edilizia e di quella urbanistica: rispettivamente lettere c), d), ed e) della citata legge 457/1997.
Questi ultimi (gli interventi di ristrutturazione urbanistica) risultano assoggettati ad aliquota ridotta indipendentemente dal tipo di edificio (in caso di ristrutturazione urbanistica sono consentiti interventi anche su strade e altri tipi di opere, risoluzione 6 dicembre 1989, n. 550688) sul quale vengono effettuati e indipendentemente dal soggetto che li commissiona (risoluzione ministeriale 2 novembre 1988, n. 461666).
L’impresa appaltatrice, pertanto, deve verificare esclusivamente che l’intervento rientri in una delle tre citate ipotesi agevolate.
La cosa, peraltro, non è sempre agevole sia per quanto riguarda gli interventi di ristrutturazione edilizia e urbanistica (emblematiche le tre risoluzioni ministeriali relative all’intervento di ristrutturazione edilizia su di un fabbricato industriale trasformato in albergo: risoluzioni 1 marzo 1993, n. 531543; 6 ottobre 1992, n. 531543; 7 marzo 1992, n. 501040), tuttavia utili riferimenti è possibile trovarli nei titoli abilitativi ai lavori.
Al riguardo si ricorda che richiedono il permesso di costruire gli interventi di ristrutturazione urbanistica e le ristrutturazioni edilizie per così dire pesanti, dove l’intervento porta a un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente.
Per gli altri interventi di ristrutturazione edilizia per gli interventi di restauro e risanamento conservativo e per gli interventi di manutenzione straordinaria è richiesta la denuncia di inizio attività.
È quanto mai opportuno che l’impresa appaltatrice richieda una copia del titolo abilitativo indipendentemente dal fatto che i lavori siano stati commissionati in parte o completamente.
Come nelle altre fattispecie finora analizzate è bene che dei citati documenti venga fatta menzione nella “dichiarazione”.
L’acquisto di beni finiti diversi dalle materie prime e semilavorate
L’ipotesi in commento riguarda la cessione dei cosiddetti “beni finiti”: di quei beni, cioè, che incorporandosi nei fabbricati senza perdere la loro individualità, ne costituiscono elementi strutturali e quindi diventano parte integranti degli stessi.
Qualora tali beni concorrano alla costruzione di un fabbricato agevolato (per esempio un fabbricato “Tupini” o un fabbricato rurale a destinazione abitativa, un’opera di urbanizzazione), oppure a un intervento di recupero di cui alle lettere c), d) ed e), art. 31 della legge 457/78, la loro ultima fase di commercializzazione è assoggetta alla stessa aliquota a cui è assoggettata la costruzione dell’immobile o l’intervento di recupero.
Il Ministero in più occasioni (risoluzione 30 marzo 1998, n. 22/E; circolari 2 marzo 1994, n.1/E e 30 agosto 1987, n. 683/9516 ha ribadito altresì che l’applicazione dell’aliquota ridotta è subordinata al rilascio dell’acquirente e sotto la sua responsabilità di una “dichiarazione” circa l’utilizzazione dei beni ed è estensibile anche alle relative prestazioni di posa in opera da parte del soggetto cedente che si configurino come operazioni accessorie.
Come già ricordato estremamente chiara in questo senso la circolare 17 aprile 1981, n. 14/330342 con la quale il Ministero ha precisato che “ai fini della identificazione dei beni ammessi al suddetto particolare trattamento di aliquota vale il criterio – enunciato nella circolare n. 25 del 3 agosto 1979 – della permanenza del carattere della “individualità” dei beni stessi anche successivamente al loro impiego nella costruzione. Pertanto, non rientrano nell’ambito applicativo della disposizione di cui al citato art. 8, n. 5), quei beni che, pur essendo rodotti finiti per il cedente, costituiscono invece materie prime e semilavorate per l’acquirente, quali mattoni, maioliche, chiodi, tondini di ferro, calce, cemento, pozzolana, gesso ecc.; non rientrano parimenti quei beni ceduti a fini di commercializzazione. A titolo esemplificativo, possono considerarsi “beni” assoggettabili all’aliquota del 2% (ora 4%), purché, beninteso, risultino da dichiarazione dell’acquirente e sotto la sua responsabilità, forniti per la costruzione degli immobili agevolati, gli ascensori, i sanitari per bagno (lavandini, vasche, ecc.), i prodotti per impianti idrici, per gli impianti di riscaldamento (caldaia, elementi di termosifoni, tubazioni, ecc.), per impianti elettrici (contatore, interruttori, filo elettrico, ecc.), e per impianti del gas (contatore, tubazioni, ecc.) e le relative prestazioni accessorie di posa in opera ai sensi dell’art. 12 del D.P.R. n. 633“.
Anche in questo caso, indipendentemente dalla “dichiarazione” di cui in premessa si sono evidenziati i limiti, per verificare se sussistono i requisiti oggettivi per applicare un’aliquota ridotta è necessario che il cedente richieda sempre una co- pia del titolo abilitativo ai lavori in modo da effettuare i necessari riscontri tra quanto dichiarato dal cliente e l’effettivo impiego dei beni acquistati. Nel caso i beni vengano ceduti con posa in opera o direttamente sul cantiere è opportuno allegare alla documentazione da conservare anche copia del documento di trasporto.
La modifica dell’originaria destinazione di fabbricati non ultimati acquistati con aliquota ridotta
L’ultima ipotesi che occorre esaminare concerne la modifica di destinazione, rispetto a quella originaria, di fabbricati acquistati non ultimati con la fruizione di un’aliquota ridotta.
Con la circolare 17 aprile 1981, n. 14/3303425, il Ministero delle Finanze ha stabilito, in capo al soggetto acquirente, l’obbligo di versare la differenza d’imposta dovuta sulla base di apposito documento sul quale devono essere indicati gli estremi della/e fattura/e di acquisto del fabbricato non ultimato.
Indubbiamente tale procedura non coinvolge il cedente che dovrà soltanto integrare le fatture di vendita, emesse sulla base della comunicazione da parte dell’acquirente a seguito dell’intervenuta variazione.
Considerazioni conclusive
Con le varie “dichiarazioni” fin qui riportate si è cercato di offrire una soluzione esauriente per delimitare l’ambito della responsabilità nell’applicazione dell’aliquota ridotta.
È di tutta evidenza, peraltro, che la “tenuta” delle stesse subisce la concreta verifica nella fase patologica del rapporto con il fisco, allorché l’Amministrazione finanziaria giunge a contestare il comportamento degli operatori.
L’instaurarsi di questa fase contenziosa richiede un’ulteriore precisazione circa i ruoli, gli oneri e le responsabilità fino all’esaurimento della stessa.
Da ciò l’esigenza di completare il testo di tutte le “dichiarazioni” precedenti con un’ulteriore puntualizzazione, con la sola esclusione della clausola da inserire nei preliminari per l’acquisto di una abitazione con l’agevolazione “prima casa”.